Il nuovo romanzo di Giulio Di Luzio "Fimmene" - Storie di donne e
caporali. L'Autore affonda la sua scrittura tagliente nelle carni vive
di questo ancora sconosciuto spaccato del mondo del lavoro al Sud: ne
vien fuori una narrazione che toglie il respiro, che rincorre il lettore
e lo interroga, lo mette con le spalle al muro e lo trascina dentro la
trama narrativa. Opera letteraria etica di grande portata sociale, con
questo secondo romanzo Giulio Di Luzio torna ai temi tanto cari alla sua
formazione intellettuale e politicia, segnando un'opera destinata a
divnire letteratura civile e di Resistenza.
BESA EDITRICE - GIUGNO 2017
BESA EDITRICE - GIUGNO 2017
(foto di Vitangelo Rana) |
Il silenzio è
indifferenza. L’indifferenza è complicità. Odio gli indifferenti.
L’Autore
Sono un viandante. Non ho scuderie. La mia appartenenza è la strada.
L'Autore
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Ancora sull’Uccidente, dove abito
Sono nato e vivo in quella parte del mondo che di solito viene definita Occidente ma io credo giusto chiamarla Uccidente.
Dal verbo uccidere.
La storia dell’Uccidente si è nutrita di ideali e affari, di stragi e bellezze, di armi e conquiste sociali, di solidarietà e roghi. A volte insegnavamo qualcosa al resto del mondo (concetto vago) … più spesso rubavamo, a volte imparavamo.
Dentro ogni storia – personale o collettiva – ci sono infinite possibilità. Non era scritto che l’Occidente diventasse Uccidente come non obbligatoriamente i fascismi o gli stalinismi dovevano trionfare. Nelle biforcazioni della storia la macchina militar-industriale-ideologica di Hitler poteva vincere o essere sconfitta ma c’erano anche altre opzioni: a esempio che il Terzo Reich perdesse la guerra ma che i suoi metodi, i suoi apparati, una parte delle sue idee e prassi divenissero parte della “politica” di quei Paesi che contro il nazismo avevano combattuto. La storia è complessa, piena di contraddizioni e ambiguità: se grattiamo sotto la retorica della storia ufficiale e della democrazia, sappiamo che nei di solito civili Paesi scandinavi – o negli Stati Uniti che combatterono i nazisti – contro i “diversi” furono usati (prima o in contemporanea a Hitler e poi dopo) metodi analoghi a quelli nazisti.
Accade in casa “nostra”.
E fuori?
In casa, spiegò Marx, il capitalismo cerca di presentarsi vestito, di mascherare la sua violenza; nelle colonie è nudo.
Così uno dei paradossi è che mentre l’Occidente con grande fatica e con alti costi di sangue (una lunga guerra sociale che talvolta diventò guerre civili, rivoluzioni, insurrezioni) si “civilizzava”, al suo interno (dalla metà dell'800 abbiamo conquistato diritti che oggi ci appaiono ovvii) nelle colonie era sempre più Uccidente.
Esisteva però una speranza. Perché, per lungo tempo, una parte (non saprei dire se piccola o grande) di quei movimenti che in Occidente lottava per i diritti qui considerava normale essere alleata di chi lì – nelle “colonie” – si opponeva all’Uccidente. Per lungo tempo si vedevano le tracce di un progetto (forse vago), un istinto, una ricerca in Occidente a non voler essere Uccidente. E qualche guerra di Libia fa… in Italia si scioperava per bloccare le truppe. E tanti statunitensi manifestarono, alla fine degli anni ’60, contro il loro governo portando in mano le bandiere dei vietcong, del “nemico”.
Da tempo non è più così. Le guerre dell’Uccidente tornano a essere vantate oltre che praticate. Non c’è altro progetto per governare il mondo. Non c’è limite.
Chi pensava che almeno la tortura fosse una pagina chiusa della storia forse ricorderà che, dopo l’11 settembre, molti eleganti intellettuali dei nostri civili Paesi ci hanno spiegato che “a volte” bisogna, anzi è giusto!
Così il Segretario alla Difesa USA Donald Rumsfeld (in carica dal 2001 al 2008), l’11 aprile 2003 a commento dei saccheggi e le violenze dei marines in Iraq dirà: “La libertà non è una cosa pulita, e un popolo libero è libero anche di fare degli errori e di commettere dei crimini…queste cose succedono” o le parole di Condoleezza Rice della Segreteria di Stato il 31 Luglio 2003: “La nostra decisione di entrare in guerra contro l’Iraq era basata su eccellenti informazioni di intelligence. Faccio questo lavoro da vent’anni, e le informazioni circa la presenza di armi biologiche e chimiche in Iraq erano tra le più convincenti che abbia mai visto”!
O le balle di Colin Powell il 5
febbraio 2003 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “Signore e
signori, queste non sono ipotesi. Secondo le nostre stime più prudenti, l’Iraq
dispone di 100-500 tonnellate di agenti chimici, sufficienti per caricare 1600
razzi”, per poi chiedere tutti in coro l’intervento di terra in Iraq con la menzogna
della presenza di armi di distruzione di massa.
Salvo poi
ammettere 15 anni dopo -Hillary Clinton e Tony Blair- che: In Iraq ci siamo sbagliati! Quali verità
dobbiamo aspettarci nei prossimi anni sugli scenari di guerra in corso? Penso
che dovremo aspettarci dure verità finora seppellite dai media.
Chi pensava che lo schiavismo fosse pagina chiusa non ha alcuna idea di come funzionino oggi le multinazionali.
Chi pensava che almeno la libertà di sapere fosse garantita è stato tenuto all’oscuro per anni che 4 milioni di persone erano morte in Congo e che l’Uccidente ne ha tratto profitto; o se preferite dirla in altro modo senza quei morti congolesi niente coltan e senza il coltan non avremmo potuto assicurare ai nostri figli il nuovo modello di playstation,
Chi pensava…
E chi continua a pensare … che il mondo non va male. Chissà se questo è “pensare”.
Eppure dovrebbe indurre a qualche riflessione – almeno egoistica – il sapere (se lo si vuole) che l’Uccidente sta distruggendo il pianeta intero: non più solo in potenza, cioè con le armi nucleari, ma nel concreto di una catastrofe climatica-ecologica. Di fronte a tale sfida i più certi del pericolo e i meno pessimisti potrebbero/dovrebbero sfidarsi sui dati, sugli scenari, sui progetti… invece gareggiano sul non parlarne. In senso letterale: almeno un paio di governi uccidentali hanno speso soldi per occultare i rapporti scientifici e/o per screditare i firmatari che erano poi quasi sempre “le migliori menti” in circolazione, ingaggiate appunto per dire ai governi cosa accadeva.
Nessun piano per i prossimi anni in nessun campo. Ogni tanto qualche slogan. Fortuna che – suonano le trombe – siamo nel tempo della globalizzazione perciò si studiano gli scenari complessivi. Di cosa? E ogni giorno infatti è sorpresa, emergenza, colpo di scena. Gli esperti (quelli esibiti almeno) non ne azzeccano mezza. Quelli che in Uccidente comandano pensano davvero che Mc Donald vada incoraggiata. D’altronde pensano pure che alcune bombe siano giuste e altre sbagliate. E pensano che il nucleare è sicuro … a patto che i terremoti si astengano.
Fuori e dentro.
Le “colonie” sono sempre più dentro l’Uccidente. Contro il “nuovo” nemico interno – i poveri o meglio gli impoveriti, gli sfruttati, i non produttivi, i dissidenti, le classi pericolose di Bauman, i migranti, la spazzatura della post-modernità – l’Uccidente può tutto: con le armi o con la Borsa, con le leggi o senza leggi, con la polenta e con la Ferrari… li combatteremo.
Resistono persone e gruppi che sono contro la definitiva trasformazione dell’Occidente in Uccidente. Ho scritto “resistono” ma forse è più giusto riscrivere così: “tentano di resistere”. E ogni tanto qualcosa – nell’aria, nei cuori, nel mistero che è comunque la vita – spinge milioni di persone a trovarsi insieme per chiedere quell’altro “mondo” che è possibile (mai vi è stata tanta ricchezza da distribuire nella storia umana). Non c’è traccia però – neanche in quei brevi e magici momenti – di un progetto per fermare l’Uccidente. Vedo crescere la disperazione che resta individuale. E soprattutto verifico come in tante, in tanti non si accorgono di vivere in Uccidente. Credono ancora di essere nell’Occidente con le sue contraddizioni ma anche con le sue possibilità. Pensano che queste nostre parziali libertà (in via di smantellamento) possano essere difese anzi estese.
Siamo ciechi. Non abbiamo neppure il coraggio di contare le guerre che si susseguono. Molte/i non le chiamano neppure guerre e così credono di avere risolto il problema. Ci sono parole che non possono essere nominate: sfruttamento è una di queste.
Io vivo, lavoro, consumo in Uccidente, per l’Uccidente. Noi ogni giorno lavoriamo, chi più e chi meno, per l’Uccidente.
Io ho la libertà, in Italia, di stare con Bersani, con Berlusconi, con Fini o con Casini. O con due-tre di questi per volta. O di scegliere quest’anno uno di loro e poi, fra 11 mesi, di votarne un altro. Mi è però vietato di dire (o forse pensare) che l’Italia potrebbe risanare il territorio oppure costruire scuole, ospedali, case popolari con i soldi che spende in armi; i 4 detti prima sono concordi nel non farmelo dire. Ancora più vietato è mettersi in marcia verso la verità che Gunther Anders espresse così: “L’industria non produce armi per le guerre ma guerre per le armi”. In queste mie riflessioni citerò un solo libro e mi piacerebbe che chi sta leggendo lo recuperasse: si intitola “Dizionario critico delle nuove guerre” e Marco Deriu lo ha scritto (per la Emi). In un paio di presentazioni ricordo di avere incontrato pacifisti arrabbiati con Deriu perchè il suo discorso di fondo – la guerra è un “fatto sociale totale” e noi siamo immersi nel suo immaginario come nelle sue regole – faceva risultare vano il loro quotidiano impegno. Il libro è uscito nel 2005 ma purtroppo se ne è parlato abbastanza poco, ancor meno lo si è studiato o ripreso per nuove ricerche: che io conosca, resta l’unico testo capace di sviluppare questo discorso. Per di più lo fa dando informazioni (è costruito come un dizionario appunto, dalla A di “Abissi” alla W di “Warlords”) anziché volare sulle astrazioni. Libro cupissimo ma le ultime pagine si intitolano “per continuare a pensare”.
Smettere di pensare è quello che abbiamo fatto: su nucleare o immigrazione, sulla Borsa o sulla catena produttiva-distributiva del cibo, su Libia o sulla skuola dei nostri tempi, sulla dittatura del petrolierato o sul perchè il gangsterismo cresce nelle istituzioni democratiche, sulle banche o sulla quantità di droghe che ogni giorno le farmacie (e qualche Coop) garantiscono al ciclo lavora-consuma-crepa.
Forse qualcuna/o dirà: bel discorso e ora?
Sei braaaaaaavo Barbieri, ti sei pure salvato la coscienza (?) ma non dovresti dire a noi – e a te stesso in primo luogo – cosa c’è da fare? Se qualcosa si può ancora fare… perché se no … a chi scrivi, per che scopo?
In altra sede (i luoghi dove lavoro, vivo o studio per esempio) può essere di qualche interesse far partire una chiacchierata sulla mia – o la vostra – “impronta ecologica”, sui consumi, sulla banca qui all’angolo, sul commercio equo, su lavoro e ricchezza sociale, sulla produzione di paura, su forme del comunicare alternative al grande Fratello e ai suoi “democratici” cugini… su quel che comunque oggi pomeriggio o fra un mese potrei-potremmo fare. Perché comunque la storia non è scritta e bisogna tentare.
Però restano due terribili verità.
Io vivo, noi viviamo in Uccidente. Per ora – per ora – tutto quel che stiamo facendo conta come la cacca di un uccello. Anche se si salva una vita (ed è meraviglioso) o migliaia di vite… a livello del futuro non cambia, non serve. E così sarà finché non ci ritroveremo in tante/i con l’urgenza di smantellare l’Uccidente. Ci vuole coraggio ed organizzazione. Poi milioni di picconate potrebbero bastare.
LA FABBRICA DELLA FELICITA'
I crimini contro la vita li chiamano errori.
Pierangelo
Bertoli – (Eppure il vento soffia ancora)
Il 14 aprile 2016 in libreria l'esordio narrativo dell'Autore pubblicato da Stampa Alternativa. Un romanzo etico costruito su una storia vera maturata nel mondo del lavoro al Sud. Una scrittura densa e potente, di grande forza sociale, frutto di anni di esercizio, capace di raccontare con passione la realtà contemporanea, che sorprende e spiazza il lettore e mette in discussione il suo punto di osservazione su temi cruciali e sensibili, che lo pone come elemento attivo della narrazione. Un'opera rigettata con motivazioni banali dalle grandi case editrici nel consueto sciatto conformismo editoriale, che ha ucciso la letteratura italiana con opere fotocopie, ma scoperta e valorizzata dall'editore Marcello Baraghini, che decide di pubblicarla. Un esempio di letteratura civile, un libro "pericoloso", che svela un originale registro narrativo, prende per mano il lettore di fronte alle contraddizioni della società italiana. L'Autore torna così ai temi a lui tanto cari, che lo hanno portato a diverse trasmissioni RAI, come Chi l'ha visto?, Rai News 24, Radio 3 Fahrenheit.
Dal testo:
Cosa cambierebbe,
pensò. Ne avrebbe giovato la sua corsa per la verità o la misura di quello
spicchio di vita ancora da spendere, l’avrebbe frenata per sempre?
“Allora tu non farai carriera!” osservò Maurizio, guardandolo di lato.
“Io? L’ho già conclusa. Sono al gradino più alto”.
“Non sei mica primario!”.
“Il gradino più alto è accanto al paziente”.
Si abbracciarono.
Il libro di Giulio Di Luzio è proprio un passaggio alla verità, realizzato attraverso il racconto di un’esperienza puntuale seguita in tutti i suoi momenti dalla “scoperta” iniziale fino alla conclusione, ineluttabile nel suo esito infausto, ma con un risultato “luminoso” nel senso dell’esempio che viene offerto al lettore – non solo una esortazione a prender coscienza del problema e a impegnarsi- ma anche l’immagine di un modo di affrontare la malattia senza lasciarsene stroncare, reagendo attivamente e facendone un luogo di impegno collettivo, coinvolgendo i compagni di lavoro e le famiglie in una ricerca che è insieme epidemiologica e fraternamente attenta alle persone e ai loro diversi destini.
(dalla prefazione di Gianni Vattimo)
“Allora tu non farai carriera!” osservò Maurizio, guardandolo di lato.
“Io? L’ho già conclusa. Sono al gradino più alto”.
“Non sei mica primario!”.
“Il gradino più alto è accanto al paziente”.
Si abbracciarono.
Il libro di Giulio Di Luzio è proprio un passaggio alla verità, realizzato attraverso il racconto di un’esperienza puntuale seguita in tutti i suoi momenti dalla “scoperta” iniziale fino alla conclusione, ineluttabile nel suo esito infausto, ma con un risultato “luminoso” nel senso dell’esempio che viene offerto al lettore – non solo una esortazione a prender coscienza del problema e a impegnarsi- ma anche l’immagine di un modo di affrontare la malattia senza lasciarsene stroncare, reagendo attivamente e facendone un luogo di impegno collettivo, coinvolgendo i compagni di lavoro e le famiglie in una ricerca che è insieme epidemiologica e fraternamente attenta alle persone e ai loro diversi destini.
(dalla prefazione di Gianni Vattimo)
SINOSSI
Quel
che vi racconto è una storia vera. Una storia per la verità e la giustizia
condotta da mio padre e da un giovane medico in un clima di omertà. Ma anche da
mia madre, quella santa donna. Un paesino del Gargano è lo scenario. La terra
incerta, la pesca infida e un mare di disoccupati.
Nei
primi anni Settanta nasce la
fabbrica della felicità. Così la chiamano i figli di contadini e pescatori, che
abbandonano aratri e motopescherecci, per concedersi alle lusinghe delle tute
rosso amaranto della Chimica Locatelli. Vaffanculo alla pesca e alla terra,
dicevano in tanti, facevano un corso di un mese a Milano e il commendatore li
assumeva al Magazzino o alla Manutenzione, se non tenevi la terza media al
Facchinaggio, se avevi il diploma potevi finire addirittura negli uffici. In
quell’epoca la mia famiglia abitava al quinto piano di un palazzone popolare in
Via dei Mandorli, sospeso tra cielo e terra. Ma il 26 settembre 1976 lo scoppio di un impianto rilascia sul paese
decine di tonnellate di arsenico. Il Commendatore minimizza col sostegno di una
stampa benevola. Mio padre a quell’episodio non ci pensava più e neanche tanti
suoi colleghi, che in quel paese prima dell’arrivo della fabbrica non c’era un
cazzo e allora tutti si buttarono a fare concimi. Ci facemmo la casa, Fiat 600, i figli a scuola, alle terme d’estate, il motorino con la ragazza
dietro sul lungomare. Figurarsi se poi dovevamo ricordarci di
quell’incidente. Sapete quanti ce ne sono stati prima! Eppoi i dottori della
fabbrica erano così premurosi, gli operai si fidavano perché si occupavano
della loro salute. Com’era buono il commendatore, un secondo padre con gli
attrezzi nuovi alla palestra della mia scuola ed il parco giochi nella
fabbrica, perché noi piccoli non vedevamo l’ora di indossare quella tuta,
pensavamo a lui come ad un Cristo sceso sulla terra per aiutare la povera gente.
Come vi dicevo la memoria si dissolve e quell’episodio viene dimenticato. Ma
negli anni Novanta il male moderno, come dice il popolino, infioretta con
parole irripetibili le diagnosi dei medici di base. Tante giovani donne
finiscono dalla mattina alla sera nella condizione di vedove come marchiate da
uno stigma. Anche mio
padre, Maurizio Russo, si ammala. Ma il suo punto di osservazione era cambiato.
Ora cercava la verità e in quella ricerca spasmodica ritrovava un’energia
incredibile. E mia madre pensava che era guarito. Guarito? Girava tutte le case
del paese per chiedere ai colleghi di raccontare la propria storia ma anche nel
salotto di casa nostra al quinto piano di Via dei Mandorli, che sul finire
degli anni Novanta diventa l’emblema di quella strana corsa per la verità. Quel
che scrivo è una storia più grande piena di storie più piccole. In tanti erano
curiosi di quel polverone che stava alzando mio padre, andavano per parlare ma
poi si cacavano addosso dalla paura, facciamo finta che non ci siamo detti
niente e scendevano di corsa i cinque piani, che in quel palazzone non c’era
neanche l’ascensore. A differenza dei suoi colleghi però lui decide di non
arrendersi alla fatalità della malattia. Con l’aiuto di un oncologo si lancia nella ricerca delle cause della
malattia. Legge e scrive sempre e mia
madre si meravigliava e dice: ti sei messo a fare l’intellettuale adesso? Stila
elenchi di dipendenti, mansioni, sostanze maneggiate per anni, la malattia. Dopo l’esposto i giudici rinviano a giudizio il commendatore ed i
medici. Comincia il processo. Aveva alzato il polverone e tanti non lo
salutavano più. Stai sputtanando il commendatore lo rimproveravano in tanti e
lui: ho la coscienza a posto e vado avanti.
Mio padre diceva proprio
così, era una persona pulita dentro. Aveva
solo quarantacinque anni e davanti ancora tutta la vita, così avevamo sempre
pensato……!
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DA MAGGIO 2014 IN LIBRERIA PER EDITORI INTERNAZIONALI RIUNITI
NON SI FITTA
AGLI EXTRACOMUNITARI
La favola di
un’Italia mite e accogliente
Prima
ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci.
M.
Gandhi
E’ un
pugno nello stomaco di quell’Italia del buon cuore, sentimentalista e mammona
in cui abbiamo sempre immaginato di vivere.
Immaginato, appunto! E’ uno schiaffo sulla faccia di quella società civile e democratica che continua a ignorare le grida di libertà lanciate
dai ghetti di un sistema di carcerazione per profughi e migranti disseminati
lungo la penisola. E’ un grumo di cinismo e spirito di vendetta che ammorba le
giovani carni di una democrazia mutilata e propagandata, quella della
Repubblica Italiana.
Dov’è finita la storia
dell’Italia come Paese mite e accogliente?
Intorno a questo interrogativo l’Autore raccoglie l’intera vicenda immigratoria
italiana, dimostrando l’inconsistenza di aggettivi benevoli, storicamente
contraddetti per lo meno dagli ultimi trent’anni. Il salto di paradigma da
Paese di emigranti e terra di approdo rappresenta la declinazione, che ha messo
a nudo fino ai giorni nostri una cultura etnocentrica ed un grumo di pregiudizi
e stereotipi molto radicati nel tessuto sociale, squarciando il velo delle
ipocrite presuntività. Di Luzio ripercorre con leggerezza il fenomeno, che già
sul finire degli anni Settanta vede avviare un processo a tutt’oggi
ininterrotto, e si lancia in un’opera di ricostruzione organica sui processi
migratori, che hanno investito l’Italia da decenni come area di approdo, invertendo
il collaudato copione di Paese di santi,
eroi, navigatori e, appunto, migranti
. Dalla fase dell’indifferenza e della curiosità (Anni Settanta) al
decennio delle buone intenzioni (Anni Ottanta), è andata poi affermandosi una
lettura dell’immigrazione schiacciata sull’emergenza e sulle corde dell’ordine
pubblico. La legislazione italiana ha risposto fin dall’inizio con norme
discriminatorie poco attente ai diritti civili, dalla prima legge del 1986 alla
Legge Martelli del 1990. Per poi giungere ad una fase di inasprimento con l’istituzione
dei Centri di Permanenza Temporanea della “Turco-Napolitano” all’interno dalla
stagione proibizionista della Tolleranza
Zero. Infine la successiva “Bossi-Fini”, che ha mostrato la sua autentica
anima segregazionista e punitiva. L’Autore approfondisce lo scenario storico
sgravato con la Caduta del Muro di Berlino, la morte di Jerry Masslo e la prima
grande manifestazione per i diritti civili dei migranti del 1989. L’ossessione
securitaria si impone in Italia e trova riscontro nel mondo della politica e
quello dell’informazione. Il “Pacchetto-sicurezza” del 2009 segna l’impennata
di una visione reclusiva e poliziesca del fenomeno immigratorio: C.I.E, “Sindaci-sceriffo”
e ronde razzista inquinano la penisola da nord a sud. Quel Paese mite e accogliente è ormai solo una favola. Il ruolo egemone della
politica nel disegnare scenari apocalittici ed emergenziali, insieme a quello
dei media con narrative pubbliche che ripropongono con ossessione il frame dell’invasione, finiscono senza
concessioni sotto la lente di ingrandimento dell’Autore. Che si spinge a
delineare una vera e propria stagione di criminalizzazione dei migranti, spesso
dimenticando il Dna italiano come popolo che ha lasciato in ogni angolo del
pianeta le sofferenze esistenziali di intere generazioni.
L'Autore nell'incontro torinese al Circolo dei Lettori
con l'Assessore alle Politiche Migratorie Ilda Curti e
la sociologa Chiara Saraceno.
L'Autore durante l'evento del Premio Internazionale Marisa Giorgetti 2014 al Centro Interculturale Zonarelli di Bologna il 14 febbraio 2015. Alla sua destra Zijo Ribic, giovane sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia a Srebrenica (Bosnia-Erzegovina) e Gianfranco Schiavone, animatore del Premio Giorgetti. Alla sua sinistra Giuseppe Pugliese, operatore della rete S.O.S. Rosarno in Calabria.
Da marzo 2013 in libreria per Ediesse - Roma:
(foto di Piero Ruani) |
(foto di Piero Ruani) |
L'Autore durante il suo intervento con Gianfranco Schiavone.
(foto di Piero Ruani) |
Da marzo 2013 in libreria per Ediesse - Roma:
CLANDESTINI
VIAGGIO NEL VOCABOLARIO DELLA PAURA
MENZIONE SPECIALE
"PREMIO INTERNAZIONALE MARISA GIORGETTI" 2014
E’ un viaggio tra le parole, che fissano nell’opinione pubblica e nell’immaginario collettivo del Paese –soprattutto tra i più giovani- lo stigma del clandestino, dell’extracomunitario, dell’invasore, all’interno di un fenomeno descritto con una terminologia lugubre e delittuosa.
L’Autore scandaglia la narrativa pubblica alla ricerca degli slittamenti semantici e dell’inversione di senso, che si sono andati affermando negli anni e che i media hanno ben raccontato nei loro pigri copioni.
Il risultato è una rappresentazione molto lontana dalla realtà, infarcita di luoghi comuni, stereotipi e sondaggi pilotati, che tuttavia è la percezione dominante di un fenomeno complesso, quello dell’immigrazione italiana, che meriterebbe ben altri approcci. Ognuno può vantare in tal modo un vocabolario condiviso, fatto di allarmismi e panico sociale, un vero e proprio lessico dell’emergenza, discriminatorio e razzista. Tutto questo avviene, sostiene l’Auore, senza neanche accorgercene!
Di Luzio richiama i giovani alla riflessione e riporta gli esiti poco incoraggianti dei suoi numerosi incontri con gli studenti sul tema delle migrazioni, offrendo loro un manuale di autodifesa civile contro le facili generalizzazioni e semplificazioni, che individuano nel migrante il nemico simbolico e il capro espiatorio, a cui addebitare i mali della società, dalle città sporche alla disoccupazione!
Un alfabeto dalla A alla Z corredato dal racconto del contesto storico, che ha sgravato parole spesso discutibili. Una sorta di antidoto per districarsi nella giungla di piccole e grandi news dei diversi Tg, quell’abbuffata di notizie sul marocchino, tunisino, sui soliti rom, che sovente sono l’altra parte della censura. L’Autore gioca, insomma, con le parole, le mette sul banco degli imputati e le smonta una ad una, dimostrando la loro capacità di agitare le acque, attizzare fuochi e cambiare le carte in tavole, da parte di chi le usa come lame affilate.
Un libro, dunque, per difendersi dalle trappole di un’informazione asservita all’ideologia della paura, utile anche per interpretare i meccanismi oliati dei media, che seminano con le parole i germi del sospetto, avvelenano i pozzi e manipolano le nostre coscienze.
SCHEDA BIO-BIBLIOGRAFICA
Giulio Di Luzio è nato a
Bisceglie, nel barese. E’ stato antimilitarista e obiettore di
coscienza al servizio militare. Una grande passione per il mezzofondo e il podismo lo
portano agli studi universitari in medicina, poi interrotti per amore
del giornalismo, di cui frequenta alcune scuole ma resta soprattutto un
autodidatta, che ruba il mestiere nelle lunghe collaborazioni con
diverse testate. Dopo l'impegno politico giovanile in Autonomia Operaia, inizia a scrivere nel 1994 sul quotidiano lombardo
Bergamo-Oggi durante una supplenza scolastica. Dall'estate di quell'anno passa a fare il cronista dalla Puglia per il manifesto.
E precario resterà per anni nel quotidiano fondato da Pintor, Magri,
Rossanda e Parlato. Nel 2000 termina con grande amarezza il suo impegno
civile per il quotidiano comunista di Via Tomacelli e inizia con
dolore una vertenza di lavoro contro quel giornale, che si concluderà
con un accordo ed un parziale risarcimento di quanto maturato. Negli
anni successivi collabora a la Repubblica e, per un periodo più ampio, a Liberazione. Nel 2012 ha scritto sulle pagine culturali del Corriere del Mezzogiorno di Bari. Ha curato la rubrica Viaggio nelle parole nel Tg bilingue Salam Aleikum Magazine dell'emittente pugliese Antenna Sud.
Ma una scrittura irriverente, insieme alla volontà di scrivere pezzi
non conformisti che offrissero qualcosa in più al lettore non lo rendono
simpatico a direttori e capo-redattori. Sicchè precario resterà per
sempre. A conferma del suo stile, del carattere libero e indomabile a
qualsiasi compatibilità -selvaggio e sentimentale dirà qualcuno- e
del segno lasciato nelle diverse redazioni, soprattutto nella sua terra
in Puglia, i suoi libri sono osteggiati in
quei giornali con cui ha pure collaborato come la Repubblica, che puntualmente oscura le sue opere. Dopo quasi vent'anni di precariato nel mondo dell'informazione ha
deciso di uscirne, per affidare solo ai libri il suo pensiero. Ha già pubblicato:
I FANTASMI DELL’ENICHEM
La lezione di civiltà di un operaio del petrolchimico di Manfredonia
(2003 Baldini Castoldi Dalai Ed.)
Gli avvenimenti che hanno cambiato la storia dell'immigrazione in Italia (2006 - 2008 Besa Ed.)
Il poliziotto che salvò gli ebrei (2008 Mursia Ed.)
(Prefazione di Tullia Zevi)
BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI
L'inganno mediatico sull'immigrazione (2011 Ediesse)
(con un'intervista a Laura Boldrini)
CLANDESTINI
NON SI FITTA AGLI EXTRACOMUNITARI
La favola di un'Italia mite e accogliente (2014 Editori Internazioali Riuniti)
LA FABBRICA DELLA FELICITA'
Romanzo avvelenato (2016 Stampa Alternativa)
L'ESORDIO GIORNALISTICO
Sono nato a Bisceglie in provincia di Bari. Ho cominciato a scrivere piuttosto tardi, mentre ero supplente a Bergamo. All'inizio ho scritto sul quotidiano bergamasco Bergamo-Oggi. Scrivevo di cronaca di provincia e città. Fu un approccio non particolarmente esaltante dal punto di vista giornalistico. In realtà mi servì per pagare le bollette di luce e gas durante la mia permanenza in città, in quell'anno scolastico 1993-1994. Loro erano sù, in redazione, i collaboratori giù, in una specie di scantinato a smanettare con vecchie macchine da scrivere.Il passaggio significativo lo vivo nell'estate del 1994, quando incontro Carlo Leidi, notaio bergamasco, ma soprattutto uno snodo significativo della sinistra in città.
L'ESPERIENZA DE il manifesto
Carlo era un compagno che aiutava chiunque avesse bisogno. E tanto fece durante una delle più terribili crisi finanziarie de il manifesto, da tirarlo fuori da morte certa. E' morto diversi anni fa. In una cena da lui, mi propose di scrivere sul quotidiano comunista dalla Puglia, che in quegli anni non aveva alcun corrispondente. Accettai con grande piacere. Il mio primo pezzo fu pubblicato sul manifesto nell'agosto del '94. Si trattava di una vertenza di lavoro di un gruppo di donne. Quel tema, in realta, ha poi segnato gran parte dei miei pezzi sul quotidiano. Mi occupai, infatti, lungamente di lavoro e cronaca sindacale, fino a raccontare, per esempio, la storia del più grande siderurgico europeo, l'Ilva di Taranto. Una bella esperienza. Sul manifesto ho firmato più di 400 pezzi. Ricordo che nel '99, durante la guerra nei Balcani, ho scritto a giorni alterni per l'intero anno. Era di fatto un rapporto di lavoro vero e proprio, ma non formalizzato e senza contratto. Questo non è bello. Ci ho tanto creduto, fino a rinunciare ad altri lavori. Ma ho sbagliato. Chi ha avuto per le mani il quotidiano di Via Tomacelli dall'estate del '94 a quella del 2000, si è imbattutto certamente nella mia firma. E nella mia scrittura, che non ha fatto mai sconti a nessuno, anche a costo di far arricciare il naso a tanti colleghi de il manifesto. Ho registrato soprattutto la vita in carne ed ossa di donne e uomini massacrati da condizioni di lavoro indecenti, vertenze impossibili, lotte e mobilitazioni al Sud. Ho cercato di tenermi sempre lontano dalle veline sindacali, distanti anni luce da quelle condizioni materiali di vita. Su questo tema ho preso espliciti richiami dalla direzione in diverse occasioni. Ma ho continuato su questa linea, nonostante quella linea di condotta mi rendesse antipatico in Via Tomacelli e allontanava da me qualsiasi ipotesi di contrattualizzare il mio lavoro di corrispondenza. Non mi dilungo. Di questo passo giungo alla rottura col giornale nel 2000. Cercai pure una mediazione con la direzione, ma non ci fu verso. Ero, di fatto, l'ultimo ragazzo di bottega del manifesto, senza alcuna prospettiva futura, mentre altri cronisti più disponibili entravano in redazione -già si pensava alla redazione Sud, poi sorta a Napoli. Aver perso sei anni della mia vita, e ritrovarmi con un pugno di mosche in mano, mi fece precipitare in un baratro senza fine. Era come aver amato una donna ed esserne poi scaricato senza motivo. il manifesto, intanto, non si fece più sentire. E non l'ha fatto mai più. Che tristezza! Solo dopo alcuni mesi iniziai la mia vertenza di lavoro e di lotta contro il quotidiano eretico della sinistra storica italiana. Dopo aver raccontato storie di emarginazione e lavoratori sbattuti sulla strada, ora toccava a me! Lo feci con la stessa passione. Con i legali del giornale raggiunsi poi un accordo per il recupero parziale delle mie spettanza. Il primo libro bianco della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, La F.N.S.I., dal titolo: "LIBRO BIANCO SUL LAVORO NERO - Soprusi e violazioni nel mondo dell'informazione", racconta la mia storia di giornalista sfruttato dal quotidiano comunista. Ho inoltre avuto accesso al Fondo di Resistenza della Federazione, beneficiano di un contributo previsto per i casi particolarmente gravi di violazione di diritti sul lavoro. Per il manifesto si è trattato di una piena sconfitta politica ed umana su tutti i fronti!! Non ho mai più ricevuto una telefonata di scuse da parte loro.
NON STO FERMO
Qualche anno dopo raggiungo una collaborazione con la redazione barese de la Repubblica. Decine di pezzi lodati, ma troppo frontali, irriverenti, come un'inchiesta su Bari vecchia e la "movida" in città, che aveva valorizzato la cintura esterna, ma non il cuore del centro storico. Denuncio la contraddizione, ma il giornale non ci sta. Non sono un cronista modello. Mi rendo conto di non essere in linea con la vulgata carrieristica, che ti porta, prima o poi, dentro una redazione. Decido di smettere. Ma la voglia di raccontare questo maledetto Sud è troppo forte. Mi lancio dunque nella scrittura più profonda. Decido di scrivere un libro sulla mattanza di lavoratori e civili -di cui mi ero occupato sulle pagine de il manifesto- nonchè sullo scempio ambientale causato dal petrolchimico di Manfredonia. Ne verrà fuori nel 2003 I FANTASMI DELL'ENICHEM.
Sono nato a Bisceglie in provincia di Bari. Ho cominciato a scrivere piuttosto tardi, mentre ero supplente a Bergamo. All'inizio ho scritto sul quotidiano bergamasco Bergamo-Oggi. Scrivevo di cronaca di provincia e città. Fu un approccio non particolarmente esaltante dal punto di vista giornalistico. In realtà mi servì per pagare le bollette di luce e gas durante la mia permanenza in città, in quell'anno scolastico 1993-1994. Loro erano sù, in redazione, i collaboratori giù, in una specie di scantinato a smanettare con vecchie macchine da scrivere.Il passaggio significativo lo vivo nell'estate del 1994, quando incontro Carlo Leidi, notaio bergamasco, ma soprattutto uno snodo significativo della sinistra in città.
L'ESPERIENZA DE il manifesto
Carlo era un compagno che aiutava chiunque avesse bisogno. E tanto fece durante una delle più terribili crisi finanziarie de il manifesto, da tirarlo fuori da morte certa. E' morto diversi anni fa. In una cena da lui, mi propose di scrivere sul quotidiano comunista dalla Puglia, che in quegli anni non aveva alcun corrispondente. Accettai con grande piacere. Il mio primo pezzo fu pubblicato sul manifesto nell'agosto del '94. Si trattava di una vertenza di lavoro di un gruppo di donne. Quel tema, in realta, ha poi segnato gran parte dei miei pezzi sul quotidiano. Mi occupai, infatti, lungamente di lavoro e cronaca sindacale, fino a raccontare, per esempio, la storia del più grande siderurgico europeo, l'Ilva di Taranto. Una bella esperienza. Sul manifesto ho firmato più di 400 pezzi. Ricordo che nel '99, durante la guerra nei Balcani, ho scritto a giorni alterni per l'intero anno. Era di fatto un rapporto di lavoro vero e proprio, ma non formalizzato e senza contratto. Questo non è bello. Ci ho tanto creduto, fino a rinunciare ad altri lavori. Ma ho sbagliato. Chi ha avuto per le mani il quotidiano di Via Tomacelli dall'estate del '94 a quella del 2000, si è imbattutto certamente nella mia firma. E nella mia scrittura, che non ha fatto mai sconti a nessuno, anche a costo di far arricciare il naso a tanti colleghi de il manifesto. Ho registrato soprattutto la vita in carne ed ossa di donne e uomini massacrati da condizioni di lavoro indecenti, vertenze impossibili, lotte e mobilitazioni al Sud. Ho cercato di tenermi sempre lontano dalle veline sindacali, distanti anni luce da quelle condizioni materiali di vita. Su questo tema ho preso espliciti richiami dalla direzione in diverse occasioni. Ma ho continuato su questa linea, nonostante quella linea di condotta mi rendesse antipatico in Via Tomacelli e allontanava da me qualsiasi ipotesi di contrattualizzare il mio lavoro di corrispondenza. Non mi dilungo. Di questo passo giungo alla rottura col giornale nel 2000. Cercai pure una mediazione con la direzione, ma non ci fu verso. Ero, di fatto, l'ultimo ragazzo di bottega del manifesto, senza alcuna prospettiva futura, mentre altri cronisti più disponibili entravano in redazione -già si pensava alla redazione Sud, poi sorta a Napoli. Aver perso sei anni della mia vita, e ritrovarmi con un pugno di mosche in mano, mi fece precipitare in un baratro senza fine. Era come aver amato una donna ed esserne poi scaricato senza motivo. il manifesto, intanto, non si fece più sentire. E non l'ha fatto mai più. Che tristezza! Solo dopo alcuni mesi iniziai la mia vertenza di lavoro e di lotta contro il quotidiano eretico della sinistra storica italiana. Dopo aver raccontato storie di emarginazione e lavoratori sbattuti sulla strada, ora toccava a me! Lo feci con la stessa passione. Con i legali del giornale raggiunsi poi un accordo per il recupero parziale delle mie spettanza. Il primo libro bianco della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, La F.N.S.I., dal titolo: "LIBRO BIANCO SUL LAVORO NERO - Soprusi e violazioni nel mondo dell'informazione", racconta la mia storia di giornalista sfruttato dal quotidiano comunista. Ho inoltre avuto accesso al Fondo di Resistenza della Federazione, beneficiano di un contributo previsto per i casi particolarmente gravi di violazione di diritti sul lavoro. Per il manifesto si è trattato di una piena sconfitta politica ed umana su tutti i fronti!! Non ho mai più ricevuto una telefonata di scuse da parte loro.
NON STO FERMO
Qualche anno dopo raggiungo una collaborazione con la redazione barese de la Repubblica. Decine di pezzi lodati, ma troppo frontali, irriverenti, come un'inchiesta su Bari vecchia e la "movida" in città, che aveva valorizzato la cintura esterna, ma non il cuore del centro storico. Denuncio la contraddizione, ma il giornale non ci sta. Non sono un cronista modello. Mi rendo conto di non essere in linea con la vulgata carrieristica, che ti porta, prima o poi, dentro una redazione. Decido di smettere. Ma la voglia di raccontare questo maledetto Sud è troppo forte. Mi lancio dunque nella scrittura più profonda. Decido di scrivere un libro sulla mattanza di lavoratori e civili -di cui mi ero occupato sulle pagine de il manifesto- nonchè sullo scempio ambientale causato dal petrolchimico di Manfredonia. Ne verrà fuori nel 2003 I FANTASMI DELL'ENICHEM.
I FANTASMI DELL'ENICHEM
La lezione di civiltà di un operaio del petrolchimico di Manfredonia
(2003 Baldini Castoldi Dalai )
“E’
una lettura drammatica quella che siamo invitati a fare… Sono le storie
della rimozione e dell’inganno, dello scambio velenoso tra reddito e
salute, tra salario e vita, tra sviluppo ed equilibrio sociale ed
ecologico. Giulio Di Luzio si china sui materiali di queste storie e,
uno ad uno, prendono forma e si stagliano nel loro senso tragico i
passaggi, che hanno scandito la storia di Manfredonia. La storia delle
vittime e la storia dei responsabili…Quei fantasmi, che hanno finalmente
trovato una voce, continueranno a parlare. Lo faranno con questo libro
che, dunque, non ha nula da temere da coloro che cercheranno di
minimizzarne la portata, di ignorarlo, di farlo passare sotto
silenzio,cosa che certissimamente proveranno a fare...".(dalla prefazione di Gianfranco Bettin)
Il
libro parte dalla prima colonizzazione del territorio, l’arrivo
dell’Eni a Manfredonia all’inizio degli anni ’70, la devastazione di un
ambiente incontaminato, la distruzione di autentiche oasi naturalistiche
e di un patrimonio di inestimabile valore paesaggistico, naturalistico,
archeologico, agricolo e turistico. Tutto in nome dello sviluppo
economico e del ricatto occupazionale, fatto pesare senza mezzi termini
su un’intera comunità del sud affamata dalla disoccupazione. I posti di
lavoro ci saranno, ma non quanti promessi dai padrini politici del
petrolchimico. Ma le ricadute sull’ambiente e la salute collettiva sono
dietro l’angolo. Il 26 settembre 1976 sull’intera città, in particolare
sul quartiere Monticchio, si riversano qualcosa come 32 tonnellate di
anidride arseniosa, noto cancerogeno. Scoppia infatti la colonna di
arsenico all’interno degli stabilimenti. La città conterà nei decenni
successivi centinaia di decessi tra lavoratori e civili. Saranno un
operaio, Nicola Lovecchio, ed un oncologo, Maurizio Portaluri, a
condurre nell’isolamento e nell’indifferenza generali una inchiesta di
autotutela in fabbrica, che porterà al rinvio a giudizio i vertici del
petrolchimico di Manfredonia con pesanti capi di imputazione. Un
processo che viaggia verso la prescrizione tra i larghi sorrisi degli
imputati, che inducono le parti offese a rinunciare al giudizio con una
sorta di risarcimento danni. Tutti si sono piegato all’ennesimo ricatto,
tranne Anna Maria Cusmai, vedova Lovecchio.
Un
processo risultato altresì scomodo per quei soggetti in campo, che dai
primi anni del 2000 hanno sostenuto il Contratto d’Area di Manfredonia,
che ha permesso l’insediamento sui siti ex-Enichem “bonificati”, di
decine di aziende con produzioni altrettanto inquinanti. Un contratto
d’area entrato più volte nell’agenda della magistratura, dalle
irregolarità nelle procedure di disinquinamento alle modalità di
assunzione del personale, alla “fuga” di aziende appena insediatesi,
dopo aver intascato le sovvenzioni previste. Aziende spesso provenienti
dal nord, che hanno indotto a parlare di seconda colonizzazione.
L’ingente volumetria di inquinanti stoccati nei suoli ex-Enichem, a
cominciare dalla massiccia presenza di arsenico, induce a ritenere il
territorio soffocato per altri decenni ancora da rifiuti chimici.
Le
tante morti di civili per tumori ascrivibili alla presenza di arsenico
nella catena alimentare e nella falda acquifera rappresentano una
tragica realtà, che in tanti si sono affrettati a rimuovere e spazzar
via, come si nasconde frettolosamente la polvere sotto il tappeto, prima
dell’arrivo di ospiti inaspettati. La nascita di feti immaturi dal
fegato spappolato -segno inequivocabile della contaminazione da
arsenico- da donne gravide a cavallo dello scoppio del settembre 1976,
costituisce senza dubbio l’indicatore di una diffusione capillare della
contaminazione, che richiederebbe approfondimenti e analisi, che
viceversa nessuno ha fatto. Ecco perché penso che questo libro sia solo
un capitolo della drammatica esperienza umana ed industriale del
petrolchimico di Manfredonia, una tra le più tragiche nella storia
industriale del nostro Paese.
Ma
ciò che è avvenuto in città negli ultimi anni, sull’onda di una
campagna mediatica apologetica, che ha presentato la
reindustrializzazione del territorio, attraverso il Contratto d’Area di
ispirazione prodiana, come il nuovo volto pulito della città, oscura i
problemi ambientali sul tappeto e, soprattutto, tradisce l’insegnamento e
l’eredità morale di questo coraggioso operaio, Nicola Lovecchio, che
nella ricerca della verità in fabbrica ci ricorda che “…il prioritario
diritto alla salute non deve mai essere subordinato al profitto”.
E
tuttavia si riuscirà a ribaltare la verità storica: il 5 ottobre 2007 i
giudici del Tribunale di Manfredonia assolvono i vertici del
petrolchimico, perchè "...il fatto non sussiste..."!.
Questo
deve indurre la società civile ed il mondo dell'informazione ad una
presa in carico della vicenda umana ed industriale di Manfredonia,
tutt'altro che chiusa. Solo il 25 febbraio 2008 è stato inaugurato il
"Centro di ricerca, formazione e controllo della sicurezza del lavoro"
alla presenza del ghota delle autorità istituzionali mediche ed
universitarie. Il centro è situato nei siti dell'ex-Enichem, quelle
stesse aree industriali che conservano, oltre al lordume delle
discariche tossiche, la memoria della mattanza operaia, che tutti
cercano di dimenticare ed oscurare anche con manifestazioni ufficiali in
pompa magna, ma che si riveleranno ben presto coperte troppo corte per
coprire il dramma di questa comunità.
Qualche anno dopo metto mano alla ricostruzione degli anni cruciali per la storia dell'imigrazione in Italia. Ne verrà fuori un lavoro organico per comprendere la vicenda immigratoria nel nostro Paese.
A UN PASSO DAL SOGNO
Gli avvenimenti che hanno cambiato
la storia dell’immigrazione in Italia
Besa 2006 - Prefazione di Alex Zanotelli
Se
dalla metà degli anni ’80 l’Italia registra un’impennata di presenze di
immigrati, l’anno di svolta è certamente il 1989. Lo scenario, ma anche
l’epicentro degli avvenimenti destinati a mutare la storia
dell’immigrazione italiana, è un paesino del casertano, Villa Literno,
che in estate raccoglie 5, 6mila immigrati africani per la raccolta del
pomodoro in uno spicchio di Sud colonizzato dalla camorra. La piccola
comunità vive con disagio i nuovi arrivi in un territorio gravato da
carenze strutturali di servizi, acqua, fogna, viabilità. In questo
contesto, corredato da episodi di intolleranza, che proprio nell’89
saranno numerosi in tutta la penisola, matura l’uccisione del giovane
sudafricano di colore Jerry Masslo, trucidato da alcuni balordi in una
baracca fatiscente, in cui trova riparo durante la notte in condizioni
disumane insieme a decine di braccianti africani. All’inizio sembra la
morte di uno dei tanti immigrati, ma presto qualcosa cambia. Jerry
Masslo infatti non è un immigrato qualunque. E’ un rifugiato politico
riconosciuto dall’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, riparato in
Italia grazie all’intervento di Amnesty International. Così morirà il
giovane Masslo, scampato al piombo e alle carceri razzista del regime di
Pretoria, per finire impallinato da un gruppo di bianchi nella civile
Italia nata dalla Resistenza. E’ questa la contraddizione che gela
l’opinione pubblica italiana e scuote il mondo della politica e dei
Palazzi romani, ma anche l’informazione e la cosiddetta società civile.
Questo evento segnerà il punto di non ritorno nella storia
dell’immigrazione italiana. Masslo riceverà i funerali di Stato a Villa
Literno alla presenza del Vice Presidente del Consiglio. Sulla sua morte
interverranno l’ONU, il Papa, il Presidente della Repubblica e tutto il
mondo politico italiano, il sindacato, l’associazionismo. Dopo la sua
morte tutto non sarà più come prima. L’Italia alzerà la testa. Il 20
settembre ’89 a Villa Literno si tiene il primo sciopero nero contro i
caporali al servizio della camorra, un evento di una portata storica
dentro la storia stessa del mondo del lavoro in Italia e in Europa. Il 7
ottobre a Roma si svolge la prima grande manifestazione nazionale
contro il razzismo, con alla testa uno striscione che ricorda il
sacrificio del profugo politico sudafricano. In quella stagione si
formerà la prima generazione di antirazzisti in Italia. Nel febbraio del
’90 entra in vigore la legge Martelli, primo discusso tentativo di
affrontare i temi dell’immigrazione. In quel periodo prendono corpo le
prime forme di accoglienza per immigrati ed integrazione scolastica dei
loro figli. L’allora Presidente della Camera, Nilde Jotti, incontrerà
una delegazione di immigrati a Villa Literno. Pietro Ingrao riporterà su
l’Unità una vibrante riflessione: Cari bianchi, gli invasori siamo noi
…! Nell’estate del ’90 il paesino casertano accoglie l’esperienza del
Villaggio della Solidarietà, la grande tendopoli allestita grazie
all’impegno volontario di giovani provenienti da tutta Italia. Poi, la
triste vicenda del Ghetto di Villa Literno, la vergogna della favela
italiana, ove troveranno riparo fin dai primi anni ’90 centinaia di
immigrati africani in condizioni da sottosviluppo. Il Ghetto sarà
incendiato nell’autunno del ’94. Mons. Raffaele Nogaro parlerà di
incendio di Stato, una pagina oscura della nostra storia repubblicana
più recente. L’Autore ritorna poi sui luoghi di quella difficile
stagione per il nostro Paese, alla ricerca dei segni lasciati sul
territorio. Si sofferma inoltre sul delicato rapporto tra informazione e
immigrazione, denunciando l’uso giornalistico di copioni mediatici e
stereotipi culturali a tutto svantaggio dell’inchiesta e dell’analisi.
Il lavoro interviene infine sui temi di accoglienza e sul nodo
imbarazzante dei Centri di Permanenza Temporanea.
Il
libro è particolarmente utile per chi intenda approfondire i temi
dell'immigrazione dal punto di vista storico-giornalistico, partendo
dalla morte di Jerry Masslo e dal terremoto politico che ne seguì. Il
rèportage contenuto nel libro, per la prima volta nelle librerie nel
dicembre del 2006, delinea lo scenario drammatico di paesini entrati
successivamente agli onori della cronaca nera e giudiziaria, Villa
Literno, Castel Volturno, litorale domizio, Casal di Principe, in
seguito all'uccisione di diversi imigrati di colore da parte della
camorra. Esattamente quello che accadeva vent'anni prima, che il libro
documenta con rigore.
Tempo
dopo incrocio la storia di un giovane poliziotto nei tempi bui
delle leggi razziali del 1938. Ne è vien fuori questo libro, uscito
per Mursia nel 2008.
E’
la ricostruzione storica della vicenda umana e professionale di un
giovane funzionario di polizia durante gli anni del fascismo.
Meridionale ed originario della provincia di Avellino –nasce nel 1909 a
Montella- Giovanni Palatucci, fervente cattolico ma irriverente e
critico verso le gerarchie e le burocrazie militari, giunge alla
Questura di Genova nel 1936 come vice commissario aggiunto. Ma la sua
visione della Pubblica Sicurezza e della sua funzione sociale mal si
concilia con l’impostazione allora esistente. Verrà quindi allontanato
dalla Questura di Genova ed emarginato in quella di Fiume nella veste di
responsabile dell’Ufficio Stranieri.
E’
il 1938. Siamo negli anni della promulgazione delle leggi razziali. Il
giovane Palatucci comincia a rendersi subito conto dell’atroce realtà
della discriminazione razziale contro gli ebrei ma anche contro zingari,
omosessuali, antifascisti, giornalisti e sacerdoti ostili al regime.
Questa consapevolezza determinerà scelte, che cambieranno la sua vita.
Prende corpo così quella graduale ma costante opera di costruzione di una efficiente rete di soccorso in favore dei tanti perseguitati dal nazismo con cui verrà i contatto in quegli anni.
Proprio la sua funzione direttiva all’Ufficio Stranieri gli consentirà di salvare migliaia di perseguitati, non meno di 5.000, utilizzando quella burocrazia, fatta di permessi, timbri, carte ed archivi, che alla questura di Genova aveva tanto detestata, e che si rivelerà preziosa a Fiume per far sparire, occultare e trasferire nomi e volti altrimenti destinati allo sterminio nazista. Determinante sarà anche la collaborazione di un suo zio sacerdote, Mons. Giuseppe Maria Palatucci, responsabile della Diocesi Vescovile di Campagna, un paesino del salernitano, ove Palatucci riuscirà a far confluire migliaia di perseguitati. Bisogna inoltre sottolineare il coraggio di questo prelato in un periodo storico in cui i vertici della Chiesa e Papa Pacelli in prima persona, preoccupati di evitare uno scontro aperto col regime, non prenderanno mai una chiara posizione contro le leggi razziali.
Dopo l’8 settembre del ’43 la situazione precipita. L’opera umanitaria di Palatucci si intensifica con nuovi e sempre efficaci modalità di protezione e fuga per gli ebrei. Palatucci entrerà pure in contatto col Movimento di liberazione nazionale con falso nome, eluderà i controlli delle SS e delle spie dell’Ovra con diversi stratagemmi e praticamente farà sparire gli ebrei da Fiume. Nell’agosto del ’44 i rastrellamenti degli ebrei da parte dei nazisti a Fiume, per la deportazione e la cosiddetta “soluzione finale” nei campi di concentramento, porteranno ad un nulla di fatto. Gli ebrei sono praticamente scomparsi! Palatucci verrà subito identificato come responsabile ed arrestato nel settembre del ’44 con un ordine firmato dal tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Rinchiuso nel lager di Dachau, vi morirà a soli 36 anni, neanche compiuti, il 10 febbraio 1945. Il suo corpo sarà gettato in una fosse comune sulla collina di Leitenberg.
Lo Stato di Israele gli tributerà l’onore di “Giusto tra le nazioni” e la Chiesa avvierà la Causa di Beatificazione, tutt’ora in corso. Giovanni Paolo II lo ha annoverato tra i martiri del XX secolo.
Prende corpo così quella graduale ma costante opera di costruzione di una efficiente rete di soccorso in favore dei tanti perseguitati dal nazismo con cui verrà i contatto in quegli anni.
Proprio la sua funzione direttiva all’Ufficio Stranieri gli consentirà di salvare migliaia di perseguitati, non meno di 5.000, utilizzando quella burocrazia, fatta di permessi, timbri, carte ed archivi, che alla questura di Genova aveva tanto detestata, e che si rivelerà preziosa a Fiume per far sparire, occultare e trasferire nomi e volti altrimenti destinati allo sterminio nazista. Determinante sarà anche la collaborazione di un suo zio sacerdote, Mons. Giuseppe Maria Palatucci, responsabile della Diocesi Vescovile di Campagna, un paesino del salernitano, ove Palatucci riuscirà a far confluire migliaia di perseguitati. Bisogna inoltre sottolineare il coraggio di questo prelato in un periodo storico in cui i vertici della Chiesa e Papa Pacelli in prima persona, preoccupati di evitare uno scontro aperto col regime, non prenderanno mai una chiara posizione contro le leggi razziali.
Dopo l’8 settembre del ’43 la situazione precipita. L’opera umanitaria di Palatucci si intensifica con nuovi e sempre efficaci modalità di protezione e fuga per gli ebrei. Palatucci entrerà pure in contatto col Movimento di liberazione nazionale con falso nome, eluderà i controlli delle SS e delle spie dell’Ovra con diversi stratagemmi e praticamente farà sparire gli ebrei da Fiume. Nell’agosto del ’44 i rastrellamenti degli ebrei da parte dei nazisti a Fiume, per la deportazione e la cosiddetta “soluzione finale” nei campi di concentramento, porteranno ad un nulla di fatto. Gli ebrei sono praticamente scomparsi! Palatucci verrà subito identificato come responsabile ed arrestato nel settembre del ’44 con un ordine firmato dal tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Rinchiuso nel lager di Dachau, vi morirà a soli 36 anni, neanche compiuti, il 10 febbraio 1945. Il suo corpo sarà gettato in una fosse comune sulla collina di Leitenberg.
Lo Stato di Israele gli tributerà l’onore di “Giusto tra le nazioni” e la Chiesa avvierà la Causa di Beatificazione, tutt’ora in corso. Giovanni Paolo II lo ha annoverato tra i martiri del XX secolo.
A UN PASSO DAL SOGNO
La crescente l'attenzione al tema delle migrazioni nella società italiana, sia pur nella cornice dell'allarme e dell'emergenza, convincono la casa editrice Besa di Lecce a rimettere in libreria il testo"A un passo dal sogno", già pubblicato il 2006. Il libro riesce nell'ottobre 2008 con una nuova veste tipografica. E' il segno della sua attualità.
BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI
L'inganno mediatico sull'immigrazione
2011 Ediesse Roma
L'inganno mediatico sull'immigrazione
2011 Ediesse Roma
Il
tema immigratorio ritorna nei miei interessi. Decido di monitorare
l'informazione italiana sul tema, di scandagliare la narrazione
mediatica del migrante.
L'intervista all'Autore in occasione della presentazione di "Brutti, sporchi e cattivi" alla Feltrinelli di Bari il 16 novembre 2011.
L'Autore col sociologo Franco Ferrarotti alla presentazione romana di "Brutti, sporchi e cattivi" alla Feltrinelli, Galleria Alberto Sordi, Piazza Colonna il 10 novembre 2011.
Mi
lancio in un panorama livido e onnipotente, incrocio semplificazioni
cronachistiche e stereotipi giornalistici buoni per ogni stagione a
descrivere i brutti, sporchi e cattivi del nostro tempo: sono i
migranti. Un viaggio condotto con passione civile e rigore scientifico
nel mondo dei media del Belpaese, che svela subito il vizio d'origine di
stampa e piccolo schermo. La costruzione della figura del migrante,
generalmente negativa, è affidata ai maitre a pénser di casa
nostra, corteggiati dal potere politico. E' soprattutto la televisione,
grazie al suo potere invasivo, ad erigere muri e palizzate nelle case
degli italiani, delineando ipotetiche invasioni, che ridurrebbero i nostri spazi vitali, da parte di persone con bisogni umanitari, che i media si ostinano a chiamare clandestini o extracomunitari, secondo una vulgata linguistica e redazionale che non conosce confini. La semplificazione mediatica extracomunitario-clandestino-criminale
si spoglia di qualsiasi legame razionale e scientifico, per divenire un
copione narrativo, da dare in pasto ad un'opinione pubblica mediamente
disinformata, che non puo' che invocare scelte di ordine pubblico. Gran
parte della stampa ha acquisito un ruolo centrale nella definizione di
un clima di sospetto, se non di aperta avversione e xenofobia. Come non
ricordare allora i meridionali migrati nelle metropoli del nord durante
gli anni Cinquanta, sbattuti in prima pagina dai grandi quotidiani e descritti come calabresi, pugliesi, siciliani. Come ieri
per tanti di noi, luoghi comuni e ricerca di nuovi capri espiatori si
rinnovano con nuove vesti ed oggi anche i migranti perdono identità e
nelle periferie deindustrializzate e nelle tante bidonville italiane
diventano i brutti, sporchi e cattivi, su cui scaricare i disagi delle vite di periferia. Il libro riporta l'intervista a Laura Boldrini, all'epoca portavoce dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati, ed il contributo di Oliviero Forti, responsabile dell'Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana.
L'intervista all'Autore in occasione della presentazione di "Brutti, sporchi e cattivi" alla Feltrinelli di Bari il 16 novembre 2011.
L'Autore col sociologo Franco Ferrarotti alla presentazione romana di "Brutti, sporchi e cattivi" alla Feltrinelli, Galleria Alberto Sordi, Piazza Colonna il 10 novembre 2011.
Due momenti dell'assemblea romana MEDIAmente RAZZISTI alla Facoltà di Scienze Politiche il 15 maggio 2012. Accanto all'Autore la giornalista francese Flore Murard-Yovanovitch.